Questo post riguarda il sequel meno sequel che io abbia mai visto. "Baciami ancora", il nuovo film di Gabriele Muccino, è la conseguenza meno prevedibile e (almost) real che il regista avrebbe potuto immaginare per "L'ultimo bacio", questo pluri-premiato e pluri-imitato prototipo della "commedia generazionale". Sono passati dieci anni, tre tornate elettorali, una crisi economica che ha cambiato la nostra percezione del futuro; nessun trentenne di oggi immagina più la casa assicurata e la vita assicurata che Carlo vedeva davanti a sé quando andava a riprendersi Giulia, e anche il frigo pieno per non sentirsi povero è un motivetto in via d'estinzione insieme alla figura del giovane e rampante italiano medio-borghese, stiracchiato nello stipendio da posso fisso. Che siano passati dieci anni nel film si vede benissimo, e questo è senz'altro un merito.
Per prima cosa, comunque, ho bisogno di dire che il cambio di protagonista (da Mezzogiorno a Puccini) non fa bene alla storia: con buona pace della nuova arrivata Vittoria Puccini e del suo lodevole impegno, la storia è ancora pensata per quella rompipalle di Giulia-Giovanna Mezzogiorno, per la sua testardaggine e il suo muso duro, per il suo succede a tutti ma "non a me!" Una che "io la tua fine non la faccio", una che, nel faccia a faccia con Carlo, non si tira mai indietro. Dopo dieci anni, Giulia non è cambiata, è sempre lei, e l'assenza della Mezzogiorno si fa sentire.
Bisogna anche dire che in questo film si vede il bene e il male dell'educazione americana di Muccino. Il bene è un certo gusto per il visionario, che il regista sembra sapere sempre dove piazzare: per esempio, l'ultima azione di Paolo-Santamaria (non dico quale per chi non ha visto il film) racconta fino in fondo l'esaltazione del suo personaggio, e per un attimo tutto -la vestaglia aperta, la pioggia, la visione dall'esterno- sembra preso dal video di una band hard rock.
Il male, invece, è che alcune delle storie sono credibili quanto romanzetti da serial tv: per esempio, non si capisce veramente perchè Carlo non abbia saputo tenere insieme la sua famiglia o perchè Adriano ci abbia messo tanto tornare a casa. E, sia detto per inciso, non si capisce nemmeno perchè Giorgio Pasotti, tra un'anaconda e l'altra, sia dovuto diventareil cone di Johnny Glamour.
In ogni caso, i dieci anni che sono passati si vedono è il ritratto è, complessivamente, attendibile. Dopo i trentenni disorientati, Muccino racconta i quarantenni che si sforzano di rimanere in piedi e che si fanno del male pur di mettere radici, probabilmente -davvero- l'unico modo per sentirsi vivi. Il male che sentono loro, lo sentiamo anche a noi, al cinema e non: Santamaria, per esempio, è un folle normale, uno che sa cosa è e cosa vorrebbe essere e che non sa come arrivarci. Ma che sa benissimo come farci credere alla sua follia. Sua madre è invecchiata e mummificata, la casa è mummificata, anche la sua vita è mummificata ed è uno dei momenti più credibili di tutto il film.
Ma soprattutto, Favino: dov'era Favino ne "L'ultimo bacio"? Favino, la comparsa, quello che si sposava all'inizio, quello della normalità che è "la vera rivoluzione", con la camicia stirata e la vita ordinata e quasi invisibile. La sua normalità rivoluzionaria, dopo dieci anni, è esplosa, e lui, con la faccia paonazza e le vene del collo blu, sembra a sua volta dover esplodere da un momento all'altro, in una sequenza tragicomica di nevrosi che trascinano ripetutamente il pubblico alla risata di cuore suo malgrado. Alla fine è lui, questo lo anticipo, il vincitore, è lui che centra l'obiettivo mancato da tutti gli altri: è lui che guarda la realtà dritta negli occhi, che guarda sé stesso allo specchio senza nascondarsi, e fa il passo avanti necessario.
E tanto rivoluzionaria è la normalità che riesce a salvare che alla fine - confesso - mi ha strappato un singhiozzo.
Bisogna anche dire che in questo film si vede il bene e il male dell'educazione americana di Muccino. Il bene è un certo gusto per il visionario, che il regista sembra sapere sempre dove piazzare: per esempio, l'ultima azione di Paolo-Santamaria (non dico quale per chi non ha visto il film) racconta fino in fondo l'esaltazione del suo personaggio, e per un attimo tutto -la vestaglia aperta, la pioggia, la visione dall'esterno- sembra preso dal video di una band hard rock.
Il male, invece, è che alcune delle storie sono credibili quanto romanzetti da serial tv: per esempio, non si capisce veramente perchè Carlo non abbia saputo tenere insieme la sua famiglia o perchè Adriano ci abbia messo tanto tornare a casa. E, sia detto per inciso, non si capisce nemmeno perchè Giorgio Pasotti, tra un'anaconda e l'altra, sia dovuto diventareil cone di Johnny Glamour.
In ogni caso, i dieci anni che sono passati si vedono è il ritratto è, complessivamente, attendibile. Dopo i trentenni disorientati, Muccino racconta i quarantenni che si sforzano di rimanere in piedi e che si fanno del male pur di mettere radici, probabilmente -davvero- l'unico modo per sentirsi vivi. Il male che sentono loro, lo sentiamo anche a noi, al cinema e non: Santamaria, per esempio, è un folle normale, uno che sa cosa è e cosa vorrebbe essere e che non sa come arrivarci. Ma che sa benissimo come farci credere alla sua follia. Sua madre è invecchiata e mummificata, la casa è mummificata, anche la sua vita è mummificata ed è uno dei momenti più credibili di tutto il film.
Ma soprattutto, Favino: dov'era Favino ne "L'ultimo bacio"? Favino, la comparsa, quello che si sposava all'inizio, quello della normalità che è "la vera rivoluzione", con la camicia stirata e la vita ordinata e quasi invisibile. La sua normalità rivoluzionaria, dopo dieci anni, è esplosa, e lui, con la faccia paonazza e le vene del collo blu, sembra a sua volta dover esplodere da un momento all'altro, in una sequenza tragicomica di nevrosi che trascinano ripetutamente il pubblico alla risata di cuore suo malgrado. Alla fine è lui, questo lo anticipo, il vincitore, è lui che centra l'obiettivo mancato da tutti gli altri: è lui che guarda la realtà dritta negli occhi, che guarda sé stesso allo specchio senza nascondarsi, e fa il passo avanti necessario.
E tanto rivoluzionaria è la normalità che riesce a salvare che alla fine - confesso - mi ha strappato un singhiozzo.